Servono idee e contenuti, non basta l’estetica

Domani Pippo Civati sarà a Bari per incontrare e parlare con i Democratici Pugliesi.

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Poichè la “corsa per la Segreteria Nazionale PD”, leggasi anche “corsa per salvare il PD”, deve essere soprattutto farcita di contenuti, riporto di seguito i commenti al documento di Fabrizio Barca pubblicati da Civati sul suo blog.

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Attenti al catoblepa

Con qualche ritardo, determinato dall’incredibile avvio di legislatura, inizio a rispondere a Fabrizio Barca e al suo documento (la questione del catoblepa la trovate qui).

Partirei dalla questione più urgente, ovvero dall’idea – che Barca discute – del ritorno a un partito degli iscritti (molto popolare tra gli iscritti) rispetto al partito delle primarie (molto popolare tra gli elettori). La riflessione di Barca è teoricamente ineccepibile e ripresa in questi giorni da molti dirigenti del Pd: i vertici di un partito dovrebbero essere votati dagli aderenti a quel partito.

Ci sono però due ordini di problemi, anzi tre.

Il primo, è la lettura politica di una trasformazione che il Pd dovrebbe fare ora e che apparirebbe (e sarebbe) una straordinaria chiusura, dopo avere fatto primarie per qualsiasi cosa, avere coinvolto tre milioni di elettori, avere affrontato con loro un percorso che si è via via trasformato in un calvario e avere perso – dicono gli analisti – più di un milione di voti dopo le elezioni, voti che si aggiungono a quelli persi in precedenza.

Il secondo, è che il sistema delle tessere è perfetto solo teoricamente, perché – ed è accaduto anche nel 2009 – ci sono pacchetti su pacchetti, tesseramenti dell’ultimo minuto, circoli inesistenti che tesserano telepaticamente persone a loro insaputa, regioni in cui abbiamo più tessere che voti. Insomma, casi italici ben noti che non sono mai stati contrastati e che spesso hanno determinato gli esiti delle elezioni. Dimostrando un tasso di inquinamento del voto ben superiore a quello paventato per le elezioni primarie.

C’è infine il terzo e decisivo punto, che secondo me rende attuale la riflessione di Barca: ovvero, una domanda che ci dobbiamo porre circa le modalità di adesione a un partito nel Tremila. Se infatti il problema è solo quello della tessera, ci rendiamo conto che potrebbe anche essere banalizzato e ridotto a mero fatto economico: ovvero, che la tessera costa più della partecipazione ai banchetti delle primarie (tra l’altro, si fa notare che la tessera non ha un prezzo standard tra provincia e provincia, varia in modo significativo e sembra quasi che il Pd abbia introdotto curiose ‘gabbie’ che distinguono un territorio e l’altro, non si capisce in ragione di cosa).

Se invece la questione è quella, ben più complessa, che riguarda la militanza, il discorso da fare, almeno oggi, è per me un altro: capire come si fa a tenere il partito aperto (anche se il segretario non dovesse fare il premier, è comunque un leader che deve essere promosso e riconosciuto da milioni di elettori, non solo da decine di migliaia di iscritti) e, nello stesso tempo, come si dà ai militanti un ruolo che hanno largamente perduto. Ciò riguarda il funzionamento dei circoli (che si chiamano così, ma sono uguali alle sezioni di un secolo fa), certo, ma soprattutto la possibilità di intervenire nel dibattito politico, di decidere e condividere qualcosa.

Per dirla in sintesi: non è che privando gli elettori della possibilità di scegliere il segretario politico di un partito (nato per altro come partito degli elettori), si dia più potere o più centralità agli iscritti. Il tema è semmai quello di promuovere un modo di partecipare più inclusivo e più forte per chi decidere di partecipare alla vita del Pd, studiando anche nuove forme di partecipazione di militanza. Perché siamo nel Tremila, appunto, e non può cambiare tutto tranne la forma partito. Altrimenti davvero non ci siamo capiti.

 

Attenti al catoblepa (segue)

La seconda puntata del mio modestissimo commento al documento di Fabrizio Barca potremmo farlo sulla mobilitazione cognitiva.

La promessa non è solo condivisibile, è addirittura rivoluzionaria, pensando a quanto è successo nella storia recente della sinistra (sinistra, quale sinistra?) italiana: Barca afferma con forza la necessità di capovolgere la piramide decisionale stimolando prima una discussione nella base, raccogliendo il sentimento e le competenze per poi procedere verso soluzioni e decisioni. E non si può non essere d’accordo. Anzi, si deve proprio tifare.

Per capirci, si può partire da come funziona ora, con le assemblee nazionali che quasi sempre vengono prima di quelle locali: e quindi al livello locale non si discute di quali istanze portare al nazionale, ma al contrario si racconta, dopo, cosa è successo, in genere con il segretario di federazione che interpreta e comunica agli iscritti la linea già decisa. E non c’è molto di cognitivo, né di mobilitante, in effetti.

Lo stesso discorso vale anche per i congressi: noi svolgiamo prima il nazionale e i regionali, e poi quelli di federazione e di circolo. Questo riflette fino all’ultimo paesino le dinamiche correntizie, nel senso che se “al nazionale” vince Bersani, poi anche al paesino si presenterà un candidato di area bersaniana, e questo non ha senso. Se ogni circolo eleggesse i propri direttivi, e poi, in seguito, si facesse il congresso nazionale, come ad esempio chiedono gli Occupy, gran parte della geografia di questo partito cambierebbe. E chi si candida al Congresso, dovrebbe dirlo subito, che non è interessato ad avere un suo emissario a San Vito dei Normanni o a Cadoneghe, ma un segretario scelto perché è capace e rappresentativo.

Venendo al tema della mobilitazione cognitiva, però, dall’impostazione del documento di Barca sembrerebbe che questa mobilitazione debba avvenire dentro il partito. Qui va fatta un’analisi su come i partiti si sono indeboliti culturalmente in questi vent’anni, e su come al contrario la società si sia arricchita di stimoli che i cittadini raccolgono personalmente, senza intermediari, attraverso l’informazione, il web, l’associazionismo, i comitati civici.

Tutto questo per dire che siamo di fronte a una società molto più dinamica che in passato, e che agisce politicamente al di fuori dei partiti e – ancora – che è molto difficile pensare che i partiti siano in grado di riportare tutto questo dentro il loro recinto.

I referendum sull’acqua sono un buon esempio, perché sono nati trasversalmente alla politica, ed è interessante notare come spesso fossero pieni di nostri militanti: bisogna chiedersi perché combattessero fuori e non dentro il Pd. E quindi lavorare per rendere il Pd un luogo più ospitale – oggi le aree culturali alla base del Pd sono state sterilizzate dal correntismo, nel senso che sono etichette che non rappresentano più aree ideali, che ormai si sono quasi completamente confuse – e accettare che in questa fase e ancora per un po’ di tempo, in futuro chissà) il partito debba avere soprattutto un ruolo di ascolto, di ospitalità nella migliore delle ipotesi, senza pretendere che la discussione – la mobilitazione cognitiva – avvenga al suo interno.

Perché questo semplicemente non accadrà, e allora il problema è essere meno sordi, meno chiusi, più attenti, pronti a fare da stimolatori e accompagnatori dei processi. Rendendosi conto che la parzialità dei partiti non è un tema accademico, ma una presa di coscienza di ciò che accade da tempo: che tutte le cose nuove e migliori arrivino alla politica senza il contributo dei partiti o loro malgrado. Pensate alle donne e al movimento Snoq (e non solo), pensate all’ambientalismo (che ha trovato ospitalità, appunto, in un’altra formazione politica, che non è la nostra), pensate alla difesa della cultura e della scienza, tema che la politica ha subito, spesso in ragione del principio di incompetenza.

Quando parlo di ospitalità, come ho fatto più volte, non la penso come soluzione acritica, anzi. L’ospitalità presuppone un luogo, uno spazio politico, in cui ci siano regole chiare (quelle della casa che ci ospita, appunto) e la massima disponibilità al confronto: per essere disponibili, perciò, si deve essere razionali. E qui il Pd può mettere in gioco tutte le proprie competenze, la sua dimensione nazionale, le sue risorse per organizzare nel modo migliore questo dibattito.

Mi viene in mente Kant e la funzione trascendentale, come ho ricordato una volta: traducendo, mi piacerebbe un partito che non si risolve nella società solamente, ma che con la società ha un rapporto costante, di più: necessario. E che non prescinde mai da chi, a proposito di mobilitazione cognitiva, si muove per conto suo, offrendo soluzioni e idee e parole al progetto di cambiamento.

Se la mobilitazione cognitiva di Barca si coniuga con questa idea dell’ospitalità, il Pd potrebbe trovare una nuova dimensione (che finora ha avuto solo in parte). E provare a conciliare le spinte della società con un discorso politico di governo. Per usare una metafora a me cara, al vento che soffia servono i mulini per trasformarsi in energia di governo. Se manca una cosa, l’altra non serve. E ciò vale per le scelte della politica, vale per la sua organizzazione.

  

Attenti al catoblepa (prosegue)

L’organizzazione della discussione è uno dei grandi temi di questi anni: ha a che fare con la democrazia, con la partecipazione, con l’informazione, con la verificabilità dei dati di partenza (prima) e delle cose fatte (dopo).

Quando Beppe Grillo spiega che in futuro i cittadini si collegheranno a internet per votare su ogni singola decisione, dimostra di saper cogliere la questione, anche se – immagino volutamente – la semplifica senza tenere conto della complessità delle questioni stesse: il web, con i social network e con i blog – compreso il suo – sono già, in un certo senso, un luogo di discussione. Quanto è utile quella discussione? Quanto è possibile confrontare per davvero e alla pari dati e pareri autorevoli? E come si pesano, è sufficiente l’opinione di un premio Nobel per decidere cosa è giusto e cosa no? Non sbagliano anche i premi Nobel? Quanto al web, e alla discussione che genera, non c’è forse una predominanza di rumore di fondo, e infine non è forse illusorio ridurre tutti questi processi in una scelta tra favorevoli e contrari, tra sì e no?

La questione è complessa, e la strada dello sperimentalismo democratico indicata dal documento di Barca, insieme al concetto di partito palestra, indica un percorso che molti, in questi primi anni di vita del Partito democratico, avrebbero voluto percorrere. Molto tempo è stato perso, ma soprattutto c’è stato poco coraggio nella voglia di sperimentare con strumenti diversi e possibili. Per citare quello più noto tra chi nel Pd si interessa di questi temi, da anni Raffaele Calabretta e altri studiosi promuovono con non molto interesse presso la dirigenza del partito il concetto e lo strumento delle doparie, dove per doparie si indica un percorso che segue le primarie, e che permette di affrontare le discussioni sui singoli temi in modo molto strutturato, e rispettoso della necessità dei militanti e degli elettori di avere accesso a dati accurati e di diversa provenienza, e di poterne discutere in modo organizzato e fecondo.

Lo statuto stesso del Pd prevede uno strumento che non è mai stato utilizzato, quello dei referendum, il cui scopo è non solo quello di indire “primarie delle idee”, ma mobilitare tutti i presidi territoriali intorno a temi di programma o contingenti. E’ difficilissimo, per ora, ottenere dal partito l’approvazione di una simile forma di consultazione – servono 30mila firme circa, cifra aldilà della portata di qualunque gruppo di militanti per quanto ben disposti, come ho potuto verificare di persona – ed è vero che il referendum finisce con un voto sì/no, ma la sfida, non solo per i proponenti, ma per tutto il Pd, poteva e doveva essere quella di riuscire a immaginare uno schema di discussione aperto, coinvolgente, anche appassionante.

Rispettoso delle culture e delle posizioni diverse, soprattutto, perché un altro problema della discussione, soprattutto quando coinvolge una platea vasta, è non far sentire escluse le minoranze che si sono espresse diversamente rispetto alla posizione dominante. E’ forse per questo che molti documenti ufficiali di partito brillano per la loro vaghezza, per non scontentare nessuno e per lasciare a disposizione della discussione verticistica quel che si andrà poi davvero a fare, una volta al governo. Soluzione diplomatica, potremmo chiamarla così, anche se in realtà l’esperienza ci dice che tale soluzione non risolve le questioni e non ci consente di risolvere le contraddizioni, semplicemente ci rende poco efficaci e comprensibili agli occhi degli elettori, e rimanda il dibattito “a più tardi” o più banalmente paralizza qualsiasi iniziativa, pena l’apertura di insanabili e mai affrontate divisioni.

Tutto questo per dire che di sperimentalismo democratico ci sarà bisogno, nei prossimi anni, per ridare ai partiti quella funzione di corpo intermedio che hanno perso, ma anche di sperimentalismo e basta, nel senso che il tema è complesso e gli strumenti numerosi, che non sono indifferenti e che sarebbe interessante metterli alla prova: nel confronto diretto tra le persone (nei circoli, nelle assemblee a ogni livello) e sul web (con piattaforme tipo Liquid Feedback, ma anche con un occhio per novità come quella a cui per esempio sta lavorando Renato Soru); con i referendum visti come occasione di confronto, con le doparie, e magari con modi nuovi e più consistenti (non solo nomi, ma anche idee) di affrontare le primarie.

C’è tantissimo da fare, e il Pd era nato proprio per rivoluzionare il suo ruolo nella società, e la sua capacità di cogliere istanze concrete nel tessuto vivo di una società dinamica, senza più l’ideologia come unico metro di giudizio. Forse è tempo di farlo – sperimentando, appunto, invece di chiudersi. Che nemmeno i ricci: perché i ricci sono simpatici.


Attenti al catoblepa: la risposta di Fabrizio Barca

Fabrizio Barca risponde al piccolo contributo che ho iniziato a dedicare al suo documento sul partito. La risposta la trovate qui. Il dibattito prosegue.


Attenti al catoblepa (penultimo contributo)

Non è cambiato nulla o quasi, dal punto di vista della forma partito, in questi ultimi vent’anni: non solo in molti casi sono rimaste le stesse persone, ma in tutti i casi sono rimasti gli stessi metodi, gli stessi strumenti e le stesse modalità. A parte il ricorso alle primarie, per il resto tutto è andato come sempre, con cambiamenti marginali o di facciata: come se fossimo più «appartati» che «apparati», capaci soprattutto di sottrarsi al cambiamento che attraversava la società e la forma delle organizzazioni di ogni genere e tipo.

Ed è proprio questo il punto, perché il partito dovrebbe essere strumento di cambiamento, mentre è apparso come elemento di conservazione, quantomeno di se stesso. Anzi, come ha detto Barca oggi, è parso «preoccupato di cambiare», alla luce di una difesa delle rendite di posizione e di una generalizzata involuzione delle proprie classi dirigenti.

Ecco perché Barca insiste sulla separazione tra Stato e partito, tra la logica inevitabilmente clientelare che ‘compromette’ il partito e che lo mette in una posizione intrinsecamente sbagliata. Forse questo è il punto politico del documento di Barca, quello più qualificante e quello, insieme, più problematico.

Per dirla con parole mie, ormai è chiaro anche ai sassi che per cambiare il Paese, si deve prima di tutto cambiare il Pd, ovvero quello strumento mancato di cambiamento, che si è fatto raggiungere da Berlusconi e sbaragliare, in una porzione non indifferente del proprio elettorato, dal M5S. Proprio su questo punto, ha agito quel combinato (ed esplosivo) disposto tra le questioni sociali e il sistema di potere, di cui il Pd è accusato di fare parte o nei confronti del quale il Pd è accusato di essere stato troppo critico e intraprendente.

Se si vuole essere elementi di mobilitazione e di cambiamento, non ci si può preoccupare degli amici degli amici, non ci si può attenere a una logica per la quale il partito diventa ascensore sociale per gli insider per diventarlo ancora di più ed entrare nelle istituzioni (spesso a prescindere dalle competenze e dal merito) e non ha più una funzione di mediatore tra Stato e società, perché ha perso di vista quest’ultima e si è esaurito nel primo. E perché non considera, se non con qualche fastidio, gli outsider.

Il Pd ha tre nodi da sciogliere, che ci parlano insieme della sua debolezza e delle opportunità che porta con sé, dice Barca: le notevoli risorse umane, che però non sono valorizzate (né formate); le numerosissime sedi locali, che però non sono messe in rete tra loro; il ricchissimo dibattito interno, che avviene troppo spesso tra posizioni di rendita (e di potere) e non sulle grandi opzioni di fondo e sulle famose ‘cose’ da fare.

È la questione dell’autonomia, del ruolo e della funzione di un partito, che precede ogni sua organizzazione e che attiene, più precisamente, alla sua collocazione e alla sua natura. Prima di essere leggero o pesante (o nessuna delle due, o entrambe, come sembra capitare all’attuale Pd) un partito deve chiarire prima di tutto a se stesso qual è la posizione che gli compete e che gli spetta. Solo così può ‘funzionare’.


Attenti al catoblepa (e non solo)

Del documento di Barca abbiamo parlato più volte (qui, qui, qui e ancora qui, con un’interlocuzione pubblica direttamente con l’estensore).

L’ultima riflessione, che muove dal testo e dalla sua presentazione, ieri, all’ambasciata del Regno Unito a Roma (e da tante altre cose lette e sentite in questi giorni, a proposito del ‘BarcaTour’ in giro per i circoli), è dedicata a due aspetti che trovo molto importanti (non da ora: ne scrissi molto tempo fa, in occasione del Congresso precedente, in Nostalgia del futuro).

Il primo riguarda la questione a cui Barca ci sollecita, perché si affermi una consuetudine diversa nelle relazioni tra i diversi livelli del Pd, non solo in senso verticale (e piramidale), ma anche in uno scambio orizzontale, che metta in comunicazione le sedi del partito non solo per ragioni territoriali. Sembra incredibile, ma il Pd funziona ancora provincia per provincia, con una struttura federale che spesso lo è solo per via di una filiera centralistica che si diffonde, come se fossimo tante matrioske. E se la rete da sola non basta – come si sente ripetere in tutte le conversazioni (che spesso si riferiscono a Grillo, come se il web lo avesse inventato lui) – la logica della rete si deve imporre nelle relazioni interne di un partito del Tremila.

Il secondo, strettamente legato al precedente, è che il documento di Barca ci riporta a una discussione alla pari, dentro e fuori, teoria e prassi, che mancava da tempo nel dibattito del centrosinistra. E credo che questo non possa che fare bene, al partito. Che un uomo di governo scriva con le cautele e l’umiltà necessaria a chi nel partito c’è da tempo (o da sempre). Che si apra al confronto per far emergere le buone idee e le buone pratiche (e mi viene in mente che fino a qualche anno fa il Psoe aveva una banca dati delle buone pratiche, che forse dovremmo pensare di importare). Che vi sia un dibattito che prescinda dalle convenienze di questo o di quello, ci dice che è possibile superare la logica per cui ciascuno parla ai ‘propri’, senza la possibilità che ci sia un movimento trasversale, tra le correnti (anche dette, con mirabile eufemismo, sensibilità).

La ricerca, insomma, invita al confronto. E all’individuazione della soluzione dei problemi, sulla base di uno schema libero e curioso del meglio, che è il primo punto da recuperare se vogliamo ripartire, prendendo la rincorsa sotto il profilo dei contenuti e delle strategie organizzative. Perché vogliamo ripartire, giusto?


Servono idee e contenuti, non basta l’esteticaultima modifica: 2013-05-23T09:04:00+02:00da eug-martello64
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