Il fisco giusto ovvero il Paese che siamo e il tempo che non abbiamo (più)

C’è un elemento comune che lega le difficoltà delle famiglie e imprese italiane, la tassazione esorbitante di chi guadagna 30.000 euro lordi all’anno, la spesa pubblica nel cuore dello stato e la lotta all’evasione.

Questo elemento comune è la fine della centralità del lavoro in Italia ed è la ragione profonda per cui dobbiamo ridurre le imposte sul reddito da lavoro.

La scarsa crescita italiana è impressionante nel confronto con le altre economie sviluppate. Tra tutti i paesi dell’Ocse, l’Italia è l’unica economia ad avere avuto un tasso di crescita del reddito reale medio pro capite negativo nell’ultimo decennio.

Mentre – secondo i dati Ocse – dal 2001 al 2011, il reddito reale medio è cresciuto in tutte le economie sviluppate ed emergenti, nel nostro paese questo è calato.

Ci ritroviamo nel 2012 ad essere mediamente più poveri di ben dieci anni fa. Non siamo più poveri del 2007, ma del 1997.

Con un debito pubblico proiettato sui 2.100 miliardi di Euro e un deficit al 3% del Pil per il 2013, con una produzione industriale che riporta il Paese indietro di quindici anni e una capacità di risparmio delle famiglie italiane che è meno della metà di quella del 1980, bisogna smettere di dare per scontata la nostra posizione nel mondo.

Non possiamo permetterci di perdere più tempo. Abbiamo perso due decadi depredando il nostro passato. Negli anni ottanta abbiamo accumulato più debito pubblico che nei 30 anni che li avevano preceduti.

Dagli inizi degli anni 2000, durante i primi anni dell’Euro, abbiamo perduto un’altra decade.

Mentre la spesa per interessi su uno dei debiti pubblici più alti del mondo era passata da più del 10% del PIL della prima metà degli anni novanta a poco più del 4%, il paese perdeva l’ennesima occasione per riformarsi in profondità.

Il risultato di questa mancanza è stato impressionante: negli anni 2000 la produttività del lavoro italiana calava rispetto a Germania, Francia, Stati Uniti e Giappone, mentre il costo unitario del lavoro cresceva più che in ciascuno di quei paesi.

È in gioco la sopravvivenza del paese che conosciamo e del benessere a cui siamo abituati.

Con un passato ipotecato e un presente da dimenticare, cerchiamo di ricostruire il nostro futuro.

Davanti a noi c’è una tentazione: imputare alla reazione disordinata di un paese sfibrato e spaventato l’impossibilità di riforme.

Così facendo non rimane che perpetrare l’ennesima promessa di sostegno dell’economia basata su maggiore spesa pubblica.

È quel che la politica italiana ha offerto per tutti gli anni dell’ultimo decennio precedenti alla crisi, quando la spesa pubblica, al netto della spesa per interessi, è passata dal 39.5% del Pil (474,9 miliardi Euro, fonte Istat) nel 2000 al 45,6% (714,4 miliardi di Euro, fonte Mef) nel 2012 e la pressione fiscale seguiva passando dal 41% al 44% del Pil (fonte Istat) nello stesso.

Eppure un paese spaventato dalla crisi e incerto sul futuro merita di meglio: ha bisogno di essere cambiato con una proposta politica che cambi radicalmente la struttura produttiva per tornare a crescere.

(Tratto dalla Mozione Congressuale di Pippo Civati)

Per un’economia positiva

Per il Pd, la centralità del lavoro ha sempre rappresentato un tratto identitario forte, sin dalla fondazione. Certo, il ruolo del lavoro per l’economia, per lo sviluppo della persona, per la coesione sociale è da ripensare e aggiornare, ma non se ne può smarrire l’importanza centrale. Eppure non si può dire che si siano raggiunti risultati notevoli. Anzi. La Ue si pone l’obiettivo di più occupazione, di migliore qualità. Aver scelto la via della compressione dei salari e delle retribuzioni in genere (la “svalutazione interna” a fronte della moneta unica) non ha reso il paese più competitivo ma più povero e sempre più ingiusto. La Costituzione ci indica la strada, inquadrando l’attività di impresa in finalità sociali che la politica promuove e indirizza. È ora che la politica torni a puntare sulle imprese che compiono le scelte più utili alla ripresa economica e a sostenere gli sforzi delle aziende proiettate verso produzioni competitive, per qualità e originalità dei prodotti, per innovazione e efficacia dei processi.

La politica farà la sua parte proponendo opzioni precise:

“via alta”: l’innovazione, la valorizzazione della componente lavoro, la sostenibilità; produzioni di beni e servizi che presentano caratteristiche di unicità (“non replicabili”);

misure per crescita dimensionale, cooperazione territoriale e cluster innovativi;

affiancare i giovani che avviano nuove iniziative imprenditoriali; rivisitando le strutture che dovrebbero farlo, destinando maggiori risorse e disboscando l’intrico di norme che ostacolano la creazione di impresa e facilitare lo startup di impresa (incentivi per i primi 3 anni di attività);

sostenere le Pmi nell’accesso al credito dove i tassi sono più onerosi, alleviare il rischio di impresa (con strumenti finanziari: microcredito, fondi rotativi);

promuovere il ricorso a venture management; fronteggiare le crisi aziendali, associando misure di emergenza e sostegno alla riconversione con responsabilizzazione delle imprese.

(Tratto dalla Mozione Congressuale di Pippo Civati)

Il territorio, unico e irripetibile

Una parte significativa del territorio italiano è costituita da aree montane, costiere, fluviali, umide e lacustri.

Sia in questa parte che nel resto del territorio si trovano estese aree di valore paesaggistico, borghi e centri storici dal valore unico, molti dei quali classificati patrimonio dell’umanità.

È paradossale che in quelle regioni dove più è cresciuta l’idea che “il territorio” – inteso come la dimensione locale ed identitaria – siano anche quelle dove non ci si è fatto nessuno scrupolo a devastare e consumare il suolo, stravolgendo l’ecosistema e la storia dei paesaggi e dei luoghi.

La rendita fondiaria si è espansa a dismisura senza generare vera ricchezza, ma beneficiando soprattutto i soliti monopolisti del mattone: è stata uno dei principali motori della disuguaglianza, soprattutto negli ultimi venti anni, in cui è aumentato il consumo di suolo senza che si generasse alcun tipo di sviluppo economico.

Dobbiamo ribaltare il paradigma dell’urbanistica degli ultimi trent’anni, anche attraverso una nuova legge quadro, attesa dal 1942. Il tema non è e non deve essere quello di “dove si costruisce”, ma di come migliorare la qualità della vita nelle aree urbanizzate, riqualificarle e rigenerarle per rispondere alle nuove esigenze abitative e tutelare le aree agricole: ad esempio combattendo l’abusivismo e ponendo definitivamente fine alla tragica stagione dei condoni.

È necessario un ribaltamento concettuale e operativo: si tratta di ripartire dal non edificato, di dar consistenza e valore al territorio libero – agricolo e non.

Di insistere sulle ristrutturazioni, sull’efficienza energetica, sulla bonifica e sul recupero di aree dismesse.

Anche per questa ragione è necessario rendere economicamente svantaggiosa la trasformazione di suolo e, soprattutto, chiarire definitivamente che ogni “diritto edificatorio” può valere al massimo cinque anni.

In tutto questo deve essere inserita anche una riforma della fiscalità locale.

Pagare un’imposta sulle aree edificabili non deve essere argomento per legittimare il “diritto” (in eterno) all’edificazione, ma una forma di fiscalità sulla possibilità temporanea di esercitare tale “diritto”, peraltro, ricordiamoci, assegnato dal piano urbanistico, ovvero da un atto pubblico.

Non è più pensabile che i Comuni debbano continuare a vivere, anche per la spesa corrente, di oneri di urbanizzazione.

Nel territorio italiano fragile e denso è finito lo spazio per la crescita della città. Per la sua espansione fisica. Non è più una scelta di modello urbano.

L’edilizia è stata e continua a essere un volano necessario, indispensabile alla crescita economica, sociale e culturale.

Che fare? Rassegnarsi a pensare che l’Italia non potrà avere le basi per il suo sviluppo produttivo e industriale? No. L’Italia ha i mezzi per competere nel settore delle costruzioni ed essere vincente, più di ogni altro paese.

E questa competitività le è data proprio dal suo territorio difficile e fortemente storicizzato.

A partire dalla tradizione del restauro Italiano, l’industria edilizia del nostro paese può gettare le basi di un vasto programma nazionale di recupero e riqualificazione del patrimonio costruito, che può costituire, anche nel settore edilizio, la base del rilancio della produzione e della crescita.

Se in altri paesi lo sviluppo di qualità (ad alto contenuto tecnologico) si basa anche su quello di quantità (l’edilizia di espansione), in Italia (come non può essere altrimenti e considerando la sua tradizione produttiva) è ormai solo sulla qualità, anche nel settore delle costruzioni, che può fondarsi un’attività produttiva competitiva.

Non solo. Almeno altri quattro settori possono essere associati alla tradizione del Restauro Italiano (per lo più concentrata sul recupero degli edifici e centri storici) e costituire spazi importanti per l’innovazione tecnologica: la riqualificazione energetica adattata al contesto climatico mediterraneo, quella antisismica, quella delle aree industriali dismesse e di quelle agricole e naturali.

Lo sviluppo del settore delle costruzioni può permettere di mettere in sicurezza il suolo e gli edifici storici e recenti, rendendo le nostre città libere dai rischi di frane e alluvioni e da quelli sismici.

Uno spazio di forte crescita è aperto dall’esportazione dell’innovazione tecnologica nell’edilizia italiana di qualità.

In particolare, tutto il bacino del Mediterraneo, a partire dalle coste del Nord Africa, costituisce il mercato ideale per un’“edilizia mediterranea” fondata su una sostenibilità energetica e ambientale adatta a questo contesto climatico, da associare alla sicurezza antisismica e ad altre specificità dell’ambito territoriale (come ad esempio, l’uso efficiente della risorsa idrica, nella costruzione e gestione degli edifici).

Non secondario è uno dei risvolti sociali di una riconversione del settore edilizio dalla quantità alla qualità: a un più alto livello tecnico corrisponde una maggiore sicurezza per gli addetti e un significativo abbattimento di quella vera e propria piaga rappresentata dalle morti bianche, che investe soprattutto proprio il settore delle costruzioni.

(Tratto dalla Mozione Congressuale di Pippo Civati)

 

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#Civati: La politica è reale solo se è condivisa

Non si tratta di sostituire il rapporto diretto tra gli iscritti con la rete, ma di integrare i due aspetti facendo diventare il web uno strumento ordinario di consultazione, di accesso ai documenti e alle informazioni, di condivisione delle decisioni, di verifica, nonché di ascolto e di consultazione.

La rete riduce le distanze, mette in comunicazione direttamente circoli e militanti anche di territori molto lontani tra loro, può consentire la condivisione di documenti e di campagne, di buone pratiche e di conoscenze che altrimenti faticherebbero a emergere nel dibattito pubblico.

La politica, come la felicità, è reale solo se è condivisa.

La rete può essere una delle principali porte di accesso al Pd in un sistema che sia aperto a tutti i cittadini e che riservi agli iscritti compiti specifici connessi con il loro ruolo.

Il ricorso sistematico alla consultazione sulle scelte politiche, come già detto, dovrebbe diventare la base sulla quale i gruppi dirigenti predispongono le discussioni negli organismi di partito.

È altrettanto importante la possibilità conferita alla base dalla rete di far emergere proposte in termini di quesiti, programmi e candidature.

A tal proposito si è parlato molto del «metodo Schulze», dove oltre ai candidati possono essere proposti i contenuti e quindi lasciati emergere con una votazione progressiva.

Se n’è parlato a proposito di Liquid Feedback e della piattaforma messa a punto dal Piratenpartei in Germania, utilizzata anche per sintetizzare i programmi elettorali.

Una sperimentazione in questo senso è possibile, anche per un grande partito come il Pd.

Per avere un partito leggero, ci vuole un partito organizzatissimo, anche se con forme nuove e meno burocratiche e gerarchiche.

Non ha funzionato il partito solo liquido, né quello troppo solido, perché l’equivoco è che per fare il primo ci vuole il secondo.

Per fare la rete, ci vuole la presenza territoriale.

E per stare nelle comunità, ci vuole una rete accessibile e trasparente.

(Tratto dalla Mozione Congressuale di Pippo Civati)

#Civati: Un partito che non sia conservatore (di se stesso)

Il modo di essere di un partito risponde, infatti, al suo progetto politico.

Un partito conservatore avrà meno attenzione per la partecipazione di tutti ai meccanismi decisionali e favorirà le élites o le oligarchie.

Un partito progressista avrà una visione opposta e si farà forte della ricerca del massimo coinvolgimento non plebiscitario, ma fondato sullo svolgimento di processi democratici e di crescita culturale.

È necessaria una cultura democratica aperta per liberare le generazioni chiuse in recinti: studenti che studiano, ma non praticano; lavoratori che lavorano, ma non si aggiornano; pensionati isolati, che non trasmettono conoscenze e memoria.

Un Paese disinformato è povero.

Battiamoci per una politica che liberi l’intelligenza e la creatività, che coltivi l’innovazione in ogni suo aspetto.

È necessaria la formazione di una cultura politica che non si limiti a nozioni di educazione civica, pure importanti, ma che sia adeguata alla comprensione di una realtà complessa e in continua evoluzione.

Da questa consapevolezza discende una prima, importante conseguenza: la struttura, il modo di essere del Pd non può riguardare soltanto gli iscritti, ma essere immediatamente rivolti a chi è fuori dall’organizzazione e dalla politica.

Il progetto politico del nostro partito si basa su una generale crescita culturale e democratica che avvicini tutti i cittadini ai processi decisionali della politica; ha senso se diffonde la consapevolezza che lo Stato si fonda sul rapporto di ogni singolo con le scelte che riguardano la vita pubblica.

Sarebbe una contraddizione in termini un “partito democratico” che riservasse per i suoi aderenti canali privilegiati di partecipazione alle decisioni e che offrisse a tutti gli altri una generica rappresentanza fondata su una delega in bianco.

Manca ancora oggi un partito che sia strumento di crescita culturale e democratica dei cittadini.

Questi si sentono esclusi, estranei alla politica, perché non hanno chiaro dove si vuole arrivare, con quale scopo, per quale strada.

Dobbiamo rivolgerci a chi si sente alieno o a chi ritiene noi alieni rispetto alla vita quotidiana e alle questioni sociali più drammatiche.

Estendere e organizzare la partecipazione è allora la chiave per rifondare la vita del Pd e la sua proiezione nella società.

Partecipazione a sua volta implica due coppie di concetti che sono le colonne portanti dell’impianto della democrazia nella costruzione del rapporto tra cittadini, politica e istituzioni: poteri-responsabilità e diritti-doveri.

(Tratto dalla Mozione Congressuale di Pippo Civati)

#Civati: 100 per cento recupero, ma non di politici tromboni o trombati

Oggi riteniamo l’inceneritore una tecnologia obsoleta e superata (come dimostrato dall’esperienza di Reggio Emilia): smaltire i rifiuti non può più essere la priorità quando in alcune realtà locali si raggiungono percentuali vicine al 90% di raccolta differenziata e si sta sviluppando sempre più un’economia del recupero della materia.

Non è sempre stato così, negli anni passati l’inceneritore spesso ha sostituito decine di piccole discariche non controllate e generatrici di danni alle falde acquifere e al sottosuolo per i decenni successivi.

In un’Europa che consuma per ogni cittadino 50 tonnellate all’anno di risorse naturali non possiamo più limitarci a garantire una “sicurezza dello smaltimento”.

Alla base di tutto ci devono essere politiche comunitarie e nazionali che promuovano la riduzione di rifiuti alla fonte.

Dobbiamo poi adottare sistemi di raccolta, politiche di riuso e recupero e filiere economiche per il riciclaggio orientati a eliminare completamente lo smaltimento negli inceneritori.

È evidente che dovrà esistere una fase di transizione, ma dobbiamo aver chiaro l’orizzonte di riferimento.

Servono strumenti come la tariffa puntuale (per pagare in base a quanto si invia a smaltimento), i piani per il decommissioning e la riconversione ecologica degli inceneritori, un sistema di incentivazione che sostenga i sistemi di raccolta e gli impianti finalizzati al recupero della materia.

È una scelta che presuppone una visione, un’idea di società. Occorre guardare a un interesse generale e di lungo periodo che sia capace di “forzare la mano” alle tentazioni del guadagno immediato e di una rendita fatta solo per dare risposte al presente.

Se esiste un campo in cui il tema delle disuguaglianze non riguarda solamente la dimensione economica e spaziale del presente è proprio l’ambiente: il prezzo degli errori di oggi crea una disuguaglianza ancora più pesante e difficilmente reversibile nel futuro.

(Tratto dalla Mozione Congressuale di Pippo Civati)

Il tramonto dei “Signori delle Tessere”

I Congressi Cittadini e Provinciali del Pd stanno volgendo alla conclusione, tra lotte all’ultimo voto e candidati unici che hanno lo spessore politico per riuscire a fare sintesi tra le varie anime del partito (sì, ciao!).

E’ stato una corsa al tesseramento da parte di persone che non sono mai entrate in un Circolo Pd, oppure ti chiedevano candidamente quali erano benefici che portava avere la tessere in tasca.

Ma la colpa è nostra (mi ci metto pure io perché non ho fatto abbastanza) che abbiamo lasciato nelle mani dei Signori delle Tessere il Partito, evitando come appestati chi ci proponeva iscriverci o semplicemente di partecipare alla vita del Circolo.

Abbiamo fatto come chi, per colpa di un pessima cucina, ha preferito morire di fame piuttosto che cacciare il Cuoco.

Però abbiamo un’ultima possibilità a partire da lunedì, prendere la tessere per votare il Segretario Nazionale… è l’ultima, poi ci teniamo quello che c’è.

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#Civati: Un partito ospitale

Un partito che riconosca la propria parzialità, che riconosca il valore dei movimenti e dei soggetti sociali portatori di innovazione in campo culturale, civile e politico.

La politica non si fa solo nei partiti, e questo un grande partito dovrebbe riconoscerlo immediatamente.

Negli ultimi anni, dalle campagne referendarie ad alcune battaglie sindacali, dalle associazioni che si battono per il riconoscimento dei diritti a quelle che si occupano di cittadinanza, molte novità non sono venute dal Palazzo, ma dalla piazza e dalla società nel suo complesso.

Non siamo all’anno zero. Lo Statuto del Pd contiene già norme e strumenti che, se azionati e attuati, sono in grado di delineare un’identità democratica nuova per l’Italia.

Ma questo ancora non è stato fatto ed è molto grave.

Partendo ciò che già esiste la nostra prima proposta deve puntare su un forte rilancio dei circoli del Partito democratico.

I circoli devono essere “vivi” e riconoscibili sul territorio e gli eletti del Pd, in qualsiasi carica istituzionale, devono partecipare alla vita del Circolo di appartenenza al fine di garantire la massima trasparenza sui processi decisionali e sulle pratiche di governo.

I circoli dovrebbero considerarsi luoghi di confronto e di elaborazione politica per tutti i cittadini, iscritti e non iscritti (si veda il progetto dei «Circoli aperti» a Bologna o l’attività del Circolo Copernico di Cagliari), e puntare ad essere soggetti attivi per la condivisione delle scelte e per la diffusione delle informazioni.

Nei circoli democratici i cittadini attivi devono sentirsi a casa loro, poter partecipare alle attività e condividere esperienze e competenze.

È necessaria la sperimentazione di nuove modalità di adesione, con la possibilità per i non iscritti di accedere ad un nuovo sistema di diritti-doveri.

Occorre riflettere sul fatto che la richiesta di adesione al partito è in calo ma che per contro la richiesta di partecipazione da parte di un elettorato sempre più istruito e informato è forte (soprattutto tra i giovani).

Sono persone, gruppi e associazioni attivi anche semplicemente temi specifici, a cui il partito deve dare accoglienza in un processo di elaborazione che abbia casa nei circoli.

Questi soggetti a un lato devono poter avere piena cittadinanza nel circolo, con ampia libertà d’iniziativa e decisionale sui progetti in cui sono coinvolti.

I referendum devono essere resi più accessibili abbassando i quorum per azionarli.

Potranno essere di due tipi: consultivi su alcuni grandi temi (con il coinvolgimento di tutti gli elettori), deliberativi per i soli iscritti.

Ciò che è decisivo però è che la consultazione degli iscritti divenga parte dei processi decisionali ordinari secondo l’ormai acquisita descrizione riconducibile al termine di doparie, in modo da interagire con l’agenda dei diversi organismi dirigenti.

Quando nel 2012 si presentò la possibilità di indire sei referendum consultivi tra gli elettori del Pd, le risposte furono timide, per usare un eufemismo.

Eppure si trattava di reddito minimo, di legalità, di diritti civili, di consumo di suolo.

Tutti temi che hanno poi avuto un ruolo decisivo nella campagna elettorale di questo inverno. Averli sottovalutati è stato un errore imperdonabile.

Le informazioni e i documenti devono essere accessibili con un congruo anticipo rispetto alla convocazione delle sedi deliberanti.

Sarà banale, ma oggi raramente è così. Per questo le riunioni dei diversi Organismi in cui è organizzato il Partito democratico (Direzioni, Assemblee, Direttivi) dovranno essere rendicontate e tutta la documentazione a corredo delle diverse Assemblee (convocazione, OdG, documenti allegati, verbali) dovrà essere pubblicata sul sito del Partito.

(Tratto dalla Mozione Congressuale di Pippo Civati)